Conferenza per l’UAAR - Roma 21. 02.2014

Religione e disagio psichico

Riflessioni di uno psichiatra - psicoanalista

Premessa

Le tematiche legate alla religione sono affrontate di solito in maniera “umorale”.

I credenti  difendono spesso le loro convinzioni con una sgradevole iattanza, la quale implica che chi non crede non ha capito la “verità” e brancola nel buio.

I non credenti e gli atei reagiscono con un malcelato e talora esplicito disprezzo razionalistico, alla luce del quale la fede è l’espressione di una persistente superstizione infantile.

L’interazione conflittuale tra credenti e non credenti si fonda, in breve, su una reciproca accusa di “stupidità”.

Io penso che questo registro comunicativo non dialettico possa essere superato assumendo la religione come un fenomeno culturale di lunga durata, i cui valori, stratificati nel corso dei secoli, sono depositati a livello di inconscio sociale.

L’inconscio sociale è un concetto messo a fuoco dagli storici della scuola de Les Annales secondo i quali ogni società è strutturata a tre livelli che fluiscono nel corso del tempo.

Adottando la metafora del fiume, in superficie si danno i fenomeni economici, nello strato intermedio le istituzioni sociali, a livello profondo un sistema di valori totalizzante: la mentalità, che funziona come un recinto mentale.

La mentalità ha uno scorrimento inerziale: essa continua a funzionare quando le persone pensano di essersene liberate.

La religione è in assoluto il quadro di mentalità dotato di maggiore inerzia.

Avendo impregnato l’inconscio sociale, è attivo in quasi tutti i soggetti  che vicino in società “cristiane”.

E’ sulla base dei concetti di lunga durata e di inconscio sociale che anni fa ho scritto un saggio sui testi biblici  (http://www.nilalienum.it/Sezioni/Opere/FacciUnDio.html) nel quale ho condensato riflessioni e studi portati avanti per 30 anni

L’exergo del saggio è una citazione di R. Barthes di grande significato: "il mito si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle cose: le cose vi perdono il ricordo della loro fabbricazione”.

Tutti i prodotti culturali hanno una storia che può essere ricostruita. Nel corso del tempo, però, essi tendono a destorificarsi.

Per quanto riguarda il Cristianesimo, la destorificazione coincide con l’attribuire i suoi principi ad una Rivelazione.

Per comprendere il significato della dottrina religiosa nei suoi aspetti funzionali e disfunzionali occorre ricondursi alla sua fabbricazione: adottare, insomma, una metodologia storicistica ed ermeneutica.

Prima di analizzare gli aspetti funzionali e disfunzionali della dottrina cristiana, occorre ricostruire le tappe della sua “fabbricazione”.

1.

La religione ebraica era una religione del mondo che non comportava il riferimento all’aldilà. La giustizia divina si realizzava nell’orizzonte mondano. I Patriarchi erano favoriti da Dio in quanto esseri giusti e santi, e il favore di Dio coincideva con l’essere ricchi, con l’esser apprezzati dal gruppo di appartenenza e con il morire serenamente in quanto sazi di vivere.

Dopo l’insediamento del popolo ebraico in Palestina si definiscono squilibri socioeconomici che, nel corso dei secoli, si incrementano. Nei profeti c’è un interrogativo continuo e inquietante: “Perché gli empi godono e i Giusti soffrono?”. Questo interrogativo, a cui non c’è risposta, mette in dubbio la giustizia divina. Senza questo riferimento, però, la religione ebraica, rimasta nostalgicamente ferma al comunitarismo ugualitaristico delle tribù mosaiche nel deserto, rischia di crollare.

E’ lo stesso pensiero profetico che offre la soluzione del problema: la giustizia divina si realizzerà, ma non sulla terra, bensì nell’aldilà.

Questa soluzione si può ritenere un éscamotage. E’ in virtù di questo éscamotage, però, ripreso da Gesù, che la religione cristiana ha portato avanti nei secoli i valori del comunitarismo ugualitaristico, il cui coronamento è il Giudizio Universale.

Certo, il comunitarismo cristiano riconosce come fondamento l’uguaglianza degli uomini in quanto fratelli e figli di Dio e non come esseri naturali appartenenti alla stessa specie.

Se si tiene conto di quel riferimento, la distanza tra l’etica religiosa e l’etica laica si riduce in nome del fatto che entrambe intersecano un sistema di valori comune.

Detto questo, bisogna però approfondire le differenza tra le due etiche al fine di sottolineare la scarsa compatibilità di alcuni valori religiosi con la natura e la psicologia umana: incompatibilità da cui discendono conseguenze affatto negative.

L’approfondimento postula esso stesso una ricostruzione storica.

La religione cristiana si fonda su di un canone di libri sacri: l’Antico e in Nuovo Testamento. Leggendoli con attenzione, ciò che colpisce sono le differenze profonde tra il Dio dell’Antico Testamento - un Dio misericordioso, ma bellicoso e  implacabilmente punitivo - e il Dio del Nuovo Testamento - un Dio dell’amore e del perdono. La differenza è a tal punto rilevante da indurre a porsi la domanda di quale criterio abbia guidato i Cristiani primitivi ad appropriarsi dei libri dell’Antico Testamento, nonostante la fiera opposizione degli Ebrei e più che evidenti contraddizioni tra narrazioni veterotestamentarie e messaggio cristiano.

Fornisco un esempio di queste contraddizioni.

In uno dei libri storici dell’Antico Testamento - Giudici - si legge questo brano:

“[30]Iefte fece voto al Signore e disse: “Se tu mi metti nelle mani gli Ammoniti, [31]la persona che uscirà per prima dalle porte di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore e io l’offrirò in olocausto”. [32]Quindi Iefte raggiunse gli Ammoniti per combatterli e il Signore glieli mise nelle mani. [33]Egli li sconfisse da Aroer fin verso Minnit, prendendo loro venti città, e fino ad Abel-Cheramin. Così gli Ammoniti furono umiliati davanti agli Israeliti.  [34]Poi Iefte tornò a Mizpa, verso casa sua; ed ecco uscirgli incontro la figlia, con timpani e danze. Era l’unica figlia: non aveva altri figli, né altre figlie. [35]Appena la vide, si stracciò le vesti e disse: “Figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola al Signore e non posso ritirarmi”. [36]Essa gli disse:

“Padre mio, se hai dato parola al Signore, fà di me secondo quanto è uscito dalla tua bocca, perché il Signore ti ha concesso vendetta sugli Ammoniti, tuoi nemici”. [37]Poi disse al padre: “Mi sia concesso questo: lasciami libera per due mesi, perché io vada errando per i monti a piangere la mia verginità con le mie compagne”. [38]Egli le rispose: “Và!”, e la lasciò andare per due mesi. Essa se ne andò con le compagne e pianse sui monti la sua verginità. [39]Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli fece di lei quello che aveva promesso con voto.”

Questo brano è in contraddizione con il sacrificio di Isacco narrato nel capitolo 22 del Genesi, laddove Dio interviene ad evitare l’olocausto umano. Il libro dei Giudici, che fa riferimento ad un periodo storico successivo al Genesi, attesta che i sacrifici umani erano ancora praticati. E’ evidente che questa pratica è del tutto incompatibile con il concetto cristiano di Dio.

Perché dunque i cristiani hanno canonizzato gran parte dei libri veterotestamentari?

La risposta è semplice, ma illuminante. La morte di Gesù, che traumatizzò i discepoli e rischiò di far cadere nell’oblio il suo messaggio, richiedeva una motivazione adeguata a spiegare un fatto scandaloso. Se Gesù era il figlio di Dio, onnipotente dunque, perché non aveva fermato la mano dei suoi carnefici? La risposta fu che egli aveva accettato il martirio per affrancare l’umanità dai suoi peccati, e in primis dal peccato originario commesso da Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, che aveva alterato il patto con Dio e precipitato l’umanità in una condizione disperata.

Il riferimento al peccato originale, la cui cancellazione aveva richiesto la venuta sulla terra di Gesù e il suo sacrificio, non apparteneva alla religione ebraica. Nei libri dell’Antico Testamento è continuo il richiamo alla venuta del Messia. Tale richiamo, però, fa riferimento ad un Ebreo che ristabilirà la perduta grandezza di Israele, restituendo ad esso il primato su tutti i popoli della terra: primato spirituale, in quanto gli Ebrei sono gli unici depositari della rivelazione divina, e primato temporale, nostalgicamente riferito al Regno di Israele.

Nel primo libro dell’Antico Testamento - il Genesi - però c’è l’antefatto di cui i Cristiani avevano bisogno per giustificare il sacrificio di Gesù: la maledizione che Dio fa incombere su Adamo ed Eva e la loro cacciata dal Paradiso terrestre. Valorizzare questo antefatto comportava però la necessità di accettare che l’uomo viene al mondo gravato del peccato originario e che dunque, nel suo intimo, c’è il male e l’ombra del Maligno.

Partendo da questo presupposto, la religione cristiana si è configurata come una religione soteriologica, che dona all’uomo la salvezza eterna al prezzo di una continua lotta contro il male e il Maligno che allignano nell’anima umana.

La religione cristiana è dunque imprescindibile da una concezione sostanzialmente negativa della natura umana, inquinata dal male.

2.

L’aver risolto il problema della morte di Gesù ritenendola necessaria ai fini di riscattare l’uomo dal peccato originale e dal male ne ha prodotto un altro.

Se Dio ha creato l’uomo, la tendenza dell’uomo al male ricade nell’ambito della sua responsabilità. Per scongiurare questa attribuzione, si è reso necessario personificare il male, evocare e teorizzare il Diavolo come nemico implacabile di Dio che contende ad esso il primato sull’anima umana.

Una volta teorizzata, la teologia del Demonio è rimasta costante nella storia della Chiesa cattolica. Papa Woytila ha ribadito per ben 23 volte il dogma l’esistenza del Diavolo come Persona.

Se si pensa all’incidenza che questo dogma ha avuto nella storia sociale dell’Occidente (la caccia alle streghe, la condanna a morte degli eretici, ecc.) e nell’immaginario collettivo, non si stenta a capire che esso ha funzionato e funziona come un riferimento culturale che affiora spesso in alcune esperienze psicopatologiche giovanili.

Nel corso della mia carriera di psicoterapeuta, ho conosciuto non meno di venti adolescenti che erano affetti da un delirio di possessione demoniaca. Tutti avevano ricevuto un’educazione cattolica, anche se più della metà, all’epoca in cui hanno sviluppato il delirio, non erano più credenti.

Il significato del delirio di possessione demoniaca è univoco. Esso insorge in genere in soggetti dotati di una grande sensibilità sociale che le circostanze di vita portano a nutrire rabbie violente e fantasie di vendetta. Spesso tali rabbie sono rimosse, e affiorano sotto forma di impulsioni, vale a dire di fantasie coatte che spingono il soggetto ad agire comportamenti antisociali spesso mostruosi. Le impulsioni, di fatto, non si realizzano mai, ma il soggetto non può attribuirle al suo essere, per cui le vive come espressioni di una possessione demoniaca.

Per sciogliere questo nodo, basta pensare che anche nel linguaggio comune essere indemoniato non significa di solito essere posseduto dal demonio, bensì essere infinitamente arrabbiato. Questo codice interpretativo viene inattivato dal riferimento al Demonio, e attesta la persistenza di una convinzione interiorizzata spesso all’epoca del catechismo.

3.

Dal momento in cui il riscatto dal peccato originale è stato assunto come importante ai fini della salvezza personale, il riferimento al Demonio, al Maligno ha configurato la salvezza come una strenua lotta del credente contro la possibilità del peccato, inteso come un cedimento alla tentazione del Maligno.

La salvezza, in breve, si è posta come un obiettivo il cui raggiungimento implica una strenua tensione verso la perfezione, alla luce del motto evangelico “Siate perfetti come il Padre vostro che è nei cieli”.

Anche per capire il perfezionismo implicito nella dottrina cristiana, occorre ricondursi alla sua matrice storica.

Ho già detto che la morte di Gesù come un criminale traumatizzò il gruppo degli Apostoli e  dei discepoli. Il consolidarsi del gruppo dopo la presunta Resurrezione, però, non fece altro che alimentare nel gruppo stesso l’aspettativa del ritorno di Gesù sulla terra, della fine del mondo e del Giudizio universale.

Il messaggio di Gesù di fatto era apocalittico. Non solo, non avendo alcuna fiducia nella possibilità che il regno della giustizia si realizzasse nell’orizzonte mondano, egli vedeva la possibilità di quella realizzazione solo attraverso la fine del mondo. Di fatto, andando consapevolmente incontro alla morte, aveva previsto che la fine del mondo sarebbe sopravvenuta  nel giro di una generazione.

Apostoli e discepoli sono rimasti nell’attesa che si realizzasse tale previsione finché lo scorrere del tempo non ha indotto a capire che insistere su di essa avrebbe compromesso la credibilità del messaggio di Gesù.

Il tema apocalittico è stato dunque accantonato sulla base del fatto che la fine del mondo avverrà, ma secondo l’imperscrutabile volontà di Dio.

Le conseguenze del pensiero apocalittico, però, sono state culturalmente esiziali.

Per capire questo aspetto occorre aprire una breve parentesi.

L’originario messaggio di Gesù non aveva alcun carattere universale, riguardava esclusivamente gli Ebrei e, all’interno del popolo eletto ma degenerato, coloro che aderivano alla sua predicazione. La Chiesa è sempre imbarazzata nel commentare l’asserzione di Gesù secondo la quale “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”. L’asserzione, invece, va presa alla lettera. dei molti chiamati, si salveranno solo coloro che praticheranno rigorosamente i valori della comunità ugualitaristica e fraterna; coloro, insomma, che saranno perfetti come è perfetto Dio.

Nel periodo in cui, soprattutto per effetto della predicazione di Paolo di Tarso, il messaggio cristiano si è universalizzando coinvolgendo tutta l’umanità in una tensione soteriologica, esso non ha rinunciato all’ideale della perfezione, eleggendolo come obiettivo a cui ogni credente deve aspirare.

Su questa base, la salvezza implica la perfezione morale, il tendere verso la santità.

Ma cos’è infine la perfezione morale? E’, né più né meno, l’altruismo sacrificale, l’annullamento di sé a favore degli altri.

Come è venuto fuori questo riferimento?

La massima del vangelo - Ama il prossimo tuo come te stesso - è profonda sotto il profilo psicologico. Essa comporta un equilibrio dinamico tra l’amore di sé e l’amore per l’altro.

Ad essa è del tutto estraneo l’altruismo sacrificale, vale a dire l’annullamento di sé a favore dell’altro.

Ma allora come è venuto fuori l’altruismo sacrificale, che viene ancora proposto a livello catechistico come modello supremo di virtù?

La risposta è semplice. Le primitive comunità cristiane avevano un’organizzazione di tipo comunistico. All’interno di una comunità coesa e solidale, l’annullamento di sé a favore dell’altro era un orientamento reciproco e quindi vantaggioso per tutti.

4.

Una sintesi delle stratificazioni dottrinarie intervenute nel corso dei secoli può fare riferimento ai seguenti punti:

1) l’apertura di un  orizzonte trascendente la vita mondana e Il superamento della finitezza individuale

2) l’attesa apocalittica della fine del mondo e la promessa di una vita eterna paradisiaca

3) L’elitarismo cristiano: “molti i chiamati, pochi gli eletti”

4) la conquista della salvezza attraverso una lotta eroica contro il male (perfezionismo morale)

5) l’altruismo sacrificale come conseguenza dell’originaria comunità comunistica

La valutazione di questi aspetti porta alla conclusione che il Cristianesimo originario era una religione di “eroi” votati alla perfezione e al martirio, la cui fede era corroborata dall’esperienza comunitaria.

5.

Via via che il Cristianesimo si è diffuso, la Chiesa si è resa conto che sarebbe stato difficile pretendere un comportamento eroico da tutti quelli che aderivano alla fede.

La soluzione del problema è stata quella di condensare valori perfezionistici prodotti da processi storico-sociali complessi in principi dottrinari praticabili da chiunque.

Questa condensazione, che ha dato luogo alla costruzione del catechisimo, consente di capire l’incidenza psicologica negativa della dottrina religiosa.

Prima di approfondire questo aspetto è, però, opportuno capire a quale profondo bisogno umano la religione fornisce le sue risposte.

La religione, e in particolare quella cristiana della quale qui ci interesseremo, è una delle “medicine” più potenti che l’uomo ha creato per arginare  l’ansia esistenziale.

L’ansia esistenziale, vale a dire l’ansia non riconducibile a conflitti psicodinamici ma alla struttura stessa della mente umana, fa riferimento al fatto che al fondo della soggettività (a livello inconscio) si dà inesorabilmente, a partire da una certa età, la consapevolezza di essere vulnerabili (esposti al rischio di soffrire), precari (esposti ai capricci della natura e del caso) e finiti (limitati nelle proprie potenzialità psicofisiche e destinati a finire).

E’ noto che le religioni orientali (e in particolare il buddismo) partono proprio da questi dati per promuovere un tragitto che, annullando progressivamente la presunzione dell’essere finito, dell’individuo, lo porta ad accettare il riassorbimento nella Totalità dell’Essere indistinto.

La religione cristiana, invece, inserisce quei dati in una visione del mondo che da ad essi un significato positivo: il dolore, nelle sue molteplici espressioni, è una prova cui è sottoposto il credente per ricavare credito agli occhi di Dio; i capricci della natura e del caso rientrano in un imperscrutabile ordine provvidenziale; la finitezza concerne solo la vita mondana al di là della quale si dà un destino immortale.

Se si parte dal presupposto che la religione conforta l’uomo e soddisfa le sue esigenze individuali di avere una particolare importanza nel quadro dell’Universo ingannandolo e costringendolo a nutrire convinzioni indimostrabili, il suo significato “tossico” riesce immediatamente evidente.

Questo giudizio di valore, che in genere è propria degli atei militanti contemporanei (Dawkins, Onfray, Odifreddi, ecc.), non è però, a mio avviso, molto significativo. Se nessuno può dimostrare l’esistenza di Dio, nessuno, al tempo stesso, può dimostrarne l’inesistenza (come Persona o, al limite, Intelligenza cosmica).

Il problema che qui affronteremo non riguarda l’esistenza o l’inesistenza di Dio, bensì le potenzialità nevrotizzanti implicite nella dottrina religiosa e nella pratica pedagogica che ad essa si ispira.

Ogni farmaco, come attesta l’etimologia, ha una duplice valenza: può curare e intossicare.

L’analisi che seguirà farà di continuo riferimento all’inconscio sociale. Sembra opportuno chiarire preliminarmente questo concetto.

L’inconscio sociale è un concetto messo a fuoco dagli storici della scuola de Les Annales, secondo i quali ogni società ha una struttura che comporta tre livelli i quali fluiscono nel corso del tempo.

Il flusso dei processi storici rievoca immediatamente la metafora del fiume. Applicata alla struttura sociale, tale metafora identifica una superficie a rapido scorrimento, che riguarda i fenomeni economici, uno strato intermedio, a scorrimento meno rapido, che riìguarda le istituzioni sociali, e uno strato profondo, a lento o lentissimo scorrimento, dove si danno sistemi di valore o quadri di mentalità che definiscono i criteri normativi, vale a dire i modi in cui le persone devono sentire, pensare ed agire.

I quadri di mentalità funzionano come recinti mentali: depositari di antiche tradizioni, essi hanno uno scorrimento a tal punto inerziale da continuare  a funzionare quando le persone pensano di essersene liberati.

La religione è in assoluto il quadro di mentalità dotato di maggiore inerzia. In quanto tale esso rappresenta il sistema di valori più attivo nelle esperienze di disagio psichico, che ne sono condizionate anche se le persone non hanno più fede e non praticano la religione.

Questo dipende dal fatto che all’educazione religiosa non sfugge praticamente nessun bambino.

Il catechismo impartito ai bambini è un non senso, non privo però di ragioni.

6.

Originariamente, all’epoca delle prime comunità cristiane, la lotta contro il male si pose come una dimensione che non poteva riguardare che gli adulti, dotati di un livello di consapevolezza adeguato a sovrapporre al male la virtù. Il battesimo era praticato fin dall’inizio, ma l’accesso alla comunità cristiana era subordinato ad un lungo catecumenato che impegnava i soggetti adolescenti, giovani o adulti.

Con il passare del tempo, a partire dal Rinascimento e ancor più dall’avvento dell’Illuminismo, la Chiesa ha colto il pericolo di un allontanamento dalla fede dei credenti nel lungo intervallo tra il battesimo e la Cresima - il sacramento erede del catecumenato. In conseguenza di questo si è avviata la pratica del catechismo rivolto ai bambini.

La teologia cristiana ha una straordinaria complessità filosofica. Le esigenze del catechismo hanno però ricavato da essa un “racconto” estremamente significato e suggestivo che può essere proposto anche ai bambini piccoli.

In Italia si danno alcune tappe importanti che definiscono il tentativo della Chiesa di egemonizzare l’educazione infantile.

Nel 1910 Pio X  introduce con un decreto l’obbligo fatto alle famiglie cristiane di far fare la prima comunione a sette anni. E’ una reazione al modernismo strisciante nella società del tempo, che, nel corso del Novecento, sarebbe approdato al nichilismo.

Nel 1923 il governo fascista rende obbligatorio l’insegnamento religioso nella scuola elementare; nel 1929 tale obbligo è esteso alle scuole medie inferiori e superiori.

Nel 1984 l’insegnamento religioso diventa facoltativo. In nome del principio per cui la religione non fa male, più del 90% delle famiglie italiane autorizzano i figli a seguire tale insegnamento.

Nel 2010 il governo Berlusconi introduce l’insegnamento religioso nella scuola primaria.

L’affanno della Chiesa  di accordarsi con il potere politico al fine di influenzare precocemente le menti infantili corrisponde ad intuizioni empiriche che le scienze sociali e umane, e in primis la psicoanalisi, hanno confermato.

7.

L’influenzabilità della mente infantile è il fondamento stesso dell’educazione, vale a dire della trasmissione di generazione in generazione della cultura, vale a dire delle tradizioni e dei valori depositati nella coscienza e nell’inconscio degli adulti. Tale influenzabilità si fonda sul fatto che la coscienza infantile, almeno fino a cinque anni, ha un modo di rapportarsi agli adulti che si può definire tranquillamente (e metaforicamente) “ipnotico”. I bambini ”stravedono” per gli adulti e attribuiscono ad essi qualità immaginarie: l’onnipotenza, l’onniscienza, ecc.

L’educazione religiosa, in questa fase, non solo è estremamente facilitata dallo stato di coscienza “ipnotico”, per cui i bambini danno credito a tutto ciò che viene trasmesso dagli adulti. Essa è anche potenziata dal fatto che i simboli religiosi (il Padre eterno, il peccato, la salvezza, la perdizione, il Paradiso, l’Inferno, Il Demonio, ecc.) hanno, al di là del loro valore concettuale, una potenza enorme a livello emozionale e immaginario. Essi, pertanto si radicano a livello inconscio e continuano a funzionare anche quando il soggetto eventualmente abbandona la fede.

L’educazione religiosa, in breve, determina una sorta di imprinting, sormontare il quale implica un durissimo tragitto introspettivo.

Ma cosa c’è di male in questo imprinting? In che senso esso si può ritenere nocivo?

8.

La “narrazione” religiosa fornisce ai bambini una visione del mondo caratterizzata dal fatto che la vita ha un senso oggettivo. Essa corrisponde ad un disegno che investe le singole esperienze soggettive. Ogni individuo è il frutto di una creazione di amore, è dotato di un’anima immortale ed è chiamato ad aderire alla volontà divina per raggiungere la salvezza e la felicità. Aderire alla volontà divina non significa solo creder e praticare, ma soprattutto sforzarsi di raggiungere la perfezione (“Siate perfetti come è perfetto il vostro Dio in cielo”:

Il riferimento al fatto che il senso della vita è e non può essere che oggettivo rimane radicato nell’inconscio.

La conseguenza di questo, sempre più frequente, è che allorché l’adolescente, di solito all’epoca della cresima o subito dopo (talvolta anche prima), abbandona la fede e si chiede il senso della vita, la risposta non può essere che il nichilismo. La vita non ha senso perché non ha più un senso oggettivo.

La Chiesa insiste sul fatto che il nichilismo dilagante tra i giovani e gli adolescenti riconosce come matrice l’Illuminismo e la cultura moderna che da esso discende. In realtà la matrice del nichilismo è la religione stessa, che non comporta il riferimento al fatto che l’esperienza individuale possa essere oggettivamente insignificante e, al tempo stesso, soggettivamente, affettivamente, socialmente e culturalmente significativa.

L’educazione religiosa incide nell’inconscio infantile il bisogno di colmare lo scarto tra la finitezza umana e l’infinito, che è presente nell’inconscio umano come intuizione emozionale.

Venendo meno la fede, quello scarto annichilisce l’io schiacciandolo sotto il peso del suo essere “nessuno”. Le difese comunemente adottate contro questa angoscia sono in genere rimedi peggiori del male. Si tratta per un verso del narcisismo, vale a dire della tendenza ad attribuirsi valori e qualità che non si hanno, giungendo spesso a sviluppare un’identificazione immaginaria con un essere onnipotente, e per un altro del ricorso a “droghe” (alcol, spinelli, cocaina, ecc.) che alleviano l’angoscia esistenziale e danno un falso senso di sicurezza.

9.

Il senso oggettivo della vita, di cui la Chiesa si ritiene depositaria, incide anche negli adulti che perdono la fede, ma, in conseguenza dell’educazione religiosa, continuano ad albergare nell’intimo un bisogno di assoluto che esaspera la “mancanza ad essere” costitutiva dell’esperienza umana.

Il problema della mancanza ad essere è centrale nel dibattito tra credenti e non credenti.

Essa, infatti, in tanto si dà in quanto l’essere finito convive con l’intuizione emozionale dell’infinito. Secondo i credenti, tale intuizione è la prova dell’esistenza di un Essere trascendente di cui l’uomo avverte il bisogno.

Secondo i non credenti, invece, la mancanza ad essere è il prodotto per un verso della consapevolezza esistenziale, e quindi della singolare struttura dell’apparato mentale umano, e, per un altro, della debolezza per cui l’essere umano, proprio per avere acquisito la consapevolezza di esserci, rifiuta di accettare di scomparire nel nulla e pretende di essere per sempre.

Nessuno può sapere cosa avverrebbe se gli esseri umani fossero educati fin da bambini ad accettare la finitezza esistenziale.

Quello che è certo è che gli adulti  educati religiosamente che perdono la fede sono esposti al rischio di sviluppare forme varie di perfezionismo patologico.

Il perfezionismo patologico va ben al di là di una tensione a migliorare continuamente se stessi e a dare il meglio di sé. Esso implica il desiderio inconscio di azzerare lo scarto tra finitezza soggettiva e infinito, e si realizza in due diverse forme: il perfezionismo morale e quello sociale.

Il perfezionismo morale rivela immediatamente la sua matrice religiosa perché implica una tensione costante sottesa dalla paura di agire comportamenti socialmente nocivi. In nome di questa paura, i soggetti sono indefinitamente disponibili nei confronti degli altri, tentano di rispondere il più possibile alle loro aspettative: tendono in breve ad annullare se stessi a favore degli altri.

Il problema è che, prima o poi, i perfezionisti morali, che si sentono costretti a vivere per gli altri, si arrabbiano e producono nel loro intimo la fantasia di mandare tutti a quel paese. Questa fantasia, del tutto contrastante con il perfezionismo, viene regolarmente colpevolizzata a livello inconscio e si traduce in un comportamento ancora più altruistico che ha un significato riparativo.

Quasi tutti i perfezionisti morali sviluppano insomma una nevrosi ossessiva che spesso, oltre ai comportamenti riparativi, comporta anche l’esecuzione di rituali più o meno articolati e l’aspettativa di qualche catastrofe il cui significato è evidentemente punitivo.

La prova che il perfezionismo morale è incompatibile con le esigenze egocentriche della natura umana (esigenze che in sé e per sé non escludono quelle sociocentriche) è dato dal fatto che una nevrosi ossessiva interviene anche in soggetti credenti che coscientemente ritengono l’annullamento di sé a favore degli altri un valore assoluto.

10.

Il perfezionismo sociale comporta anch’esso il desiderio di azzerare lo scarto tra finitezza e infinito, ma lo realizza in riferimento ad obiettivi mondani (lo status, il prestigio, la ricchezza, ecc.).

E’ evidente che in questo caso il bisogno di assoluto residuato all’educazione religiosa subisce una sorta di contaminazione per effetto di valori che sono intrinseci al sistema capitalistico.

E’ noto che Max Weber ha identificato nel protestantesimo calvinista una delle matrici storiche dell’avvento del capitalismo. L’ipotesi è difficile da confermare perché il calvinismo non ha avuto una massiccia diffusione in Europa. L’intuizione che sottende l’ipotesi va però confermata.

Fin dal suo avvento il capitalismo si è proposto con una logica incentrata su uno sviluppo illimitato, il cui fine ultimo era (ed è) la massima soddisfazione universale dei bisogni umani, vale a dire una produzione di ricchezza che si sarebbe diffusa urbi et orbi, con l’effetto di acquietare le angosce esistenziali.

Oggi sappiamo che, non diversamente da quella religiosa, anche questa promessa di felicità infinita è irrealizzabile.

Che cosa accade ai perfezionisti sociali? Per un verso, anche se raggiungono gli obiettivi che perseguono (status prestigio, ricchezza) non sono mai soddisfatti perché fanno riferimento ad altri soggetti che hanno raggiunto obiettivi più elevati. In conseguenza dell’invidia, si sottopongono ad una tensione efficientistica estrema, che, spessissimo, viene compensata da comportamenti compulsivi (cibo, alcol, droghe, beni di consumo, sesso, ecc.).

11.

Il perfezionismo morale e quello sociale, diffusissimi nel nostro mondo, attestano che il radicamento inconscio dei valori religiosi in epoca evolutiva fa sì che essi rimangano attivi sia in persone religiose che non accettano di fatto di non credere più, sia in persone che abbandonano la fede e pensano di essersene liberate.

Queste due circostanze conflittuali - di un soggetto che continua a credere mentre di fatto non crede più e di un soggetto che pensa di essersi liberato dalla fede mentre nel suo intimo i valori religiosi sono ancora attivi - sono molto frequenti a livello psicopatologico.

Un caso del primo genere è quello di una ragazza appartenente ad una famiglia i cui membri (fratelli e sorelle compresi) sono tutti integralisti e frequentano una comunità catecumenale. Ad un certo punto essa prende coscienza intuitivamente che il clima di amore universale che spira nella comunità è del tutto mistificato, ipocrita, e se ne distacca. I sensi di colpa la precipitano in una depressione che la isola nella sua camera per due anni. Il problema è che la ragazza pensa che il distacco dalla comunità sia stato dovuto a dissidi interpersonali e continua a definirsi credente. In realtà, la sua crisi è intervenuta perché essa ha intuito il significato mistificato dei valori religiosi, ma stenta a prenderne atto.

Un caso del secondo genere è quello di un giovane che, educato religiosamente, nella tarda adolescenza ha una crisi di fede per cui abbandona la pratica religiosa. Si sente sollevato da un’oppressione e sorpreso di essere rimasto immerso per tanto tempo nel culto di valori profondamente irrazionali. Qualche mese dopo l’avvenuta “liberazione”, comincia ad avvertire però l’esigenza di praticare una serie di rituali che consistono nella ripetizione mentale continua di alcune formule verbali apparentemente senza senso. Egli riesce a criticarli, ma, al tempo stesso, deve eseguirli per evitare di essere colto dall’angoscia che possa accadere qualcosa di male a sé e ai suoi. Solo lentamente si rende conto che, se le formule verbali sono assurde, il loro ripeterle rievoca le preghiere cui si dedicava nel corso del giorno quando credeva.

In entrambi i casi i sintomi si spiegano sulla base di sensi di colpa la cui matrice è religiosa. Di fatto, che il Cristianesimo sia la religione per eccellenza dei sensi di colpa è noto da sempre. Ciò nondimeno, soffermarsi su questo aspetto sembra essenziale.

12.

Occorre preliminarmente distinguere i sensi di colpa e la coscienza di colpa.

La coscienza di colpa ha una valenza oggettiva, fa riferimento alla violazione agita di norme, regole, valori unanimemente riconosciuti

I sensi di colpa hanno una valenza eminentemente soggettiva; dipendono dalla sensibilità sociale del soggetto e dai sistemi di valore interiorizzati che, spesso a livello inconscio, promuovono una valutazione impropria  di processi psichici che non si traducono in comportamenti.

Le matrici religiose dei sensi di colpa sono agevolmente riconducibili a due principi, del tutto contrastanti con la natura e la psicologia umana, che fanno però stabilmente parte dell’insegnamento catechistico.

La pedagogia religiosa squalifica le cosiddette emozioni negative (rabbia, odio, fantasie di vendetta) inducendole a viverle come espressione di quanto si dà di cattivo e di demoniaco nella natura umana. In realtà, la rabbia umana come emozione non ha nulla a che vedere con l’aggressività. Essa riconosce come matrice il senso di giustizia, e si attiva in tutte le circostanze in cui un soggetto subisce o pensa di subire un torto, una prepotenza, una prevaricazione o si identifica con qualcuno che la subisce.

Affermare che le emozioni negative vanno elaborate cercando di capire perché gli esseri umani agiscono comportamenti prepotenti e lesivi dei diritti altrui e che esse vanno canalizzate ed espresse in maniera tale da rispettare comunque la dignità umana di chi li agisce, è una cosa. Squalificarle radicalmente, come avviene costantemente a livello catechistico, è un non senso perché esse si attivano comunque a livello inconscio e non possono essere sottoposte al controllo della volontà, che può e deve regolarne l’espressione.

La pedagogia religiosa, oltre a squalificare le emozioni negative, trasmette l’assurdo principio secondo il quale pensare il male - soprattutto in rapporto ad un simile - è come averlo fatto. Ciò significa che pensieri, emozioni e fantasie “cattive” sono equiparate ad azioni. Sulla base di questo principio, è evidente che nessun uomo può scampare ai sensi di colpa.

In ambito psicopatologico, le conseguenze di questi due principi sono spesso evidenti.

Un ragazzo soffre da bambino della sua eccessiva sensibilità, che lo fa sentire debole, inerme e inetto in rapporto agli altri, Dall’adolescenza in poi decide di cambiare pelle, di indurirsi e incattivirsi. Di fatto agisce alcuni comportamenti da “bullo”. Nel suo intimo, la percezione della debolezza persiste, e lo costringe ad alimentare la sua rabbia nei confronti di essa con l’intento di diventare “cattivissimo” e “malvagio”. Di fatto, pensa di esserci riuscito perché avverte dentro di sé il potere di fare stare male tutto il mondo. Ma è un delirio di onnipotenza malvagia, a cui non corrisponde di fatto alcun comportamento agito, e che dà luogo invece ad una psicosi nel corso della quale il soggetto sperimenta un panico pressoché permanente incentrato sulla paura di una morte imminente. E’ evidentemente la punizione della sua terribile e presunta cattiveria.

Ho fatto alcuni esempi dell’incidenza dei valori religiosi interiorizzati a livello psicopatologico. Potrei farne molti altri, anche più drammatici. Ne cito solo uno.

Un giovane del Sud educato cristianamente (la famiglia di fatto è bigotta) va incontro ad una crisi adolescenziale maligna in seguito alla quale diventa estremamente aggressivo, tracotante e prepotente nei confronti dei genitori. Intervengono poi degli attacchi di panico, che sono l’indizio certo di sensi di colpa molto intensi. Dopo 4 anni di travaglio, il soggetto va incontro ad una nuova conversione che lo rende scrupolosissimo e intenzionato a raggiungere la perfezione su di un registro ascetico. Una parte del suo essere si ribella a questo ingabbiamento e lo induce a consumare trasgressivamente materiale pornografico. Egli vive le tentazioni come attentati demoniaci al suo ideale di perfezione. Un giorno risolve drasticamente e drammaticamente il problema infilandosi uno spillo in un occhio (per realizzare l’insegnamento evangelico secondo il quale la salvezza può richiedere il sacrificio dell’occhio, della mano, ecc.). La lesione è irreversibile. Ricoverato in una casa di cura, non si dà pace perché le tentazioni continuano. Dopo un anno si infila uno spillo nell’occhio sano e si acceca definitivamente.

13.

Questa tragica esperienza dovrebbe essere approfondita in riferimento alla sessuofobia intrinseca alla dottrina cristiana. Questo tema richiederebbe però un’altra conferenza.

Mi limiterò qui a dire che l’originario messaggio di Gesù non ha un’esplicita valenza sessuofobica. Gesù tra l’altro è vissuto in una comunità di discepoli alla quale partecipava un numero consistente di figure femminili, che, con i loro averi, provvedevano al mantenimento della comunità stessa. Probabilmente all’interno della comunità vigeva il principio dell’astinenza dai rapporti sessuali, fondato però più che sulla sessuofobia sulla necessità che Apostoli e discepoli rimanessero liberi da vincoli terreni e da responsabilità familiari per dedicarsi alla diffusione del messaggio di Gesù.

La sessuofobia è stata introdotta nella dottrina cristiana da Paolo di Tarso, ed è diventato un valore di riferimento per i sacerdoti e per tutti i credenti che aspirano alla perfezione.

I danni prodotti dal celibato ecclesiastico sono tristemente noti.

E’ quasi assurdo che in una società caratterizzata da un’interazione quotidiana tra uomini e donne la Chiesa continui a proporre la castità come valore obbligatorio per i sacerdoti e le suore e come valore tendenziale per tutti i credenti. E’ probabile che la crisi dell’Istituzione ecclesiale avverrà su questo tema (e sulla negazione del diritto delle donne al sacerdozio).

Ma questi sono problemi della chiesa più che di noi laici.

Quello che può qui interessare è la conseguenza drammatica e ancora attuale che la sessuofobia cattolica ha determinato. Per illustrare tale conseguenza devo ricondurmi ad un principio che governa l’esperienza mentale umana: il principio di ridondanza. tale principio significa che qualunque bisogno psicologico o fisiologico viene  a lungo represso o frustrato tende ad infinitizzarsi. L’esempio più semplice che comprova tale principio è quello dell’assetato nel deserto che non desidera uno o due litri di acqua, ma un’infinita quantità di acqua: una quantità del tutto ridondante in rapporto al suo bisogno autentico.

Ci sarebbero molte altre cose da dire, ma l’essenziale (o quello che ritengo essere tale) è stato detto.

L’applicazione di questo principio al problema della sessualità è ovvio. Essendo stato assoggettato ad una secolare repressione, il desiderio sessuale, in seguito alla rivoluzione culturale degli anni ‘70 del secolo scorso, si è attivato in termini ridondanti, cioè sotto forma compulsiva e ossessiva.

La Chiesa ovviamente non può riconoscere in questo una sua responsabilità storica, che, però, è certa.

14.

Quale conclusione trarre da quanto detto finora?

Una prima conclusione verte sul luogo comune per cui la religione non fa male; luogo comune la cui conseguenza è che una stragrande maggioranza di famiglie anche non credenti non rifiutano l’obbligo dell’insegnamento religioso per i figli. Se si convincessero che la religione, con il suo sistema di valori umanitaristico e nel contempo alienante, può danneggiare lo sviluppo della personalità e avere influenza anche in età adulta, si porrebbero le premesse per contrastare l’insegnamento religioso nelle scuole.

Nessuno potrebbe impedire ai genitori credenti di allevare cristianamente i figli. Questo però non dovrebbe avvenire a livello di istituzione pubblica.

Sarebbe comunque importante che anche il catechismo fosse emendato da principi poco o punto compatibili con la natura e la psicologia umana.

Dato il radicamento storico e culturale dei valori religiosi nell’inconscio sociale e individuale promuovere il loro definitivo superamento a livello collettivo è un’impresa di lunga durata.

A livello individuale, nel momento in cui si genera un disagio psichico la cui matrice è riconducibile ad essi, il superamento è già possibile, anche se molto meno facile di quanto si pensa.

A livello collettivo, lo sradicamento dei valori religiosi non potrà prescindere dal sostituire ad essi altri valori che forniscano una risposta alternativa alle problematiche esistenziali e alle esigenze comunitaristiche e solidaristiche che rappresentano, più della promessa dell’aldilà, l’essenza del significato storico del Cristianesimo.

Solo una società solidale, umanitaristica ed equa potrà promuovere il superamento della religione.

Questa conclusione rivela i limiti dell’ateismo razionalistico contemporaneo (Dawkins, Onfray, Odifreddi, ecc.) il quale non tiene conto del fatto che  l’apparato mentale umano comporta al tempo stesso la consapevolezza della finitezza e l’intuizione emozionale dell’infinito.

Il superamento della religione non potrà avvenire contestando la stupidità e l’ignoranza dei credenti bensì attraverso una rivoluzione culturale e al tempo stesso politica.


Presentazione in pdf della conferenza su Religione e disagio psichico